Le innumerevoli risorse della ricerca fenomenologica
di Armando Canzonieri
- Sembra che la fenomenologie sia un movimento di pensiero che rinasce sempre dalle sue stesse ceneri; i problemi posti dalla filosofia cambiano ma questa disciplina continua ad avere qualcosa da dire. Quali sono, secondo lei, i concetti, nati all’interno del movimento fenomenologico, che oggi possono essere ancora utilizzati dalla riflessione filosofica per affrontare il problema della natura umana e dell’esperienza umana cosciente?
Più che dalle sue stesse ceneri, la fenomenologia rinasce dalle ceneri dei fraintendimenti e delle ignoranze, a volte involontarie e altre no, che hanno fatto la sua (s)fortuna nel secolo scorso. Rinasce dalle assurde riduzioni che si sono fatte del suo spirito, quanto mai aperto alla ricerca anche empirica e alle sue avventure, a quello di un attardato cartesianesimo tutto chiuso nella rocca del cogito; o di un “razionalismo” ignaro del ruolo di affetti, corpo, azione nella stessa formazione della ragione, o ignaro della ragionevolezza, cioè dell’esercizio della ragione in condizioni limitate. Rinasce dalla riduzione del metodo di ricerca che la fenomenologia è ad un sistema filosofico fra gli altri, accompagnata di solito dalla riduzione della fenomenologia a un fenomenismo o a una sorta di idealismo (che disconosce l’ambizione della fenomenologia a dire qualcosa sulla realtà e non solo sulla coscienza che ne abbiamo), anzi a parlare di ambiti di realtà diversi (regioni ontologiche) eppure connessi (dalle relazioni di fondazione che connettono fra loro le diverse “regioni ontologiche” come natura, persona eccetera).
E questo ci introduce alla domanda più specifica. Un’ontologia della regione persona, vale a dire una caratterizzazione essenziale di che cosa rende tale una persona umana è fin dal secondo libro delle Idee di Husserl uno dei punti principali del programma di ricerca fenomenologico. Ma essenziali apporti sono venuti da quei fenomenologi che si sono più intensamente concentrati sull’analisi delle strutture dell’affettività e del volere, vale a dire di quelle disposizioni i cui atti sono detti “egologici”. Gli atti di tipo conativo (ad esempio le decisioni e le azioni volontarie) e quelli di tipo affettivo (ad esempio il provare dolore, speranza, paura) sono caratteristicamente esperienze in cui ciascuno, mentre le vive, sperimenta se stesso come tale, come soggetto degli atti stessi. Mentre le vive, e non per riflessione. Per riflessione posso riconoscermi soggetto di un atto puramente cognitivo, come risolvere un’equazione, ma non ho certo bisogno di esser presente a me stesso, mentre cerco di ricordarmi i passi da fare per risolverla. Invece non posso sentire male senza sentirmi male, non posso suonare il piano senza sentirmi agente e causa dei suoni che produco. Già questo concetto di atti egologici, che isola e descrive i tipi di esperienza in cui si “costituisce” la nozione di soggetto, fa fare un enorme passo avanti alla sterile problematica della soggettività come “lato interno”, inaccessibile e ineffabile dell’oggetto persona, come fascio di qualia o simili.
2. Quindi lei crede che è a partire da una fenomenologia dell’affettività e del volere che il problema della persona umana possa essere circoscritto e chiarito.
Non c’è nulla di ineffabile nella descrizione di quegli atti in cui effettivamente noi, a partire dalla prima infanzia, facciamo esperienza della nostra capacità di subire e della nostra efficacia causale, cioè dei contenuti esperienziali della nozione di soggetto. Ci sono, anzi ottime teorie fenomenologiche del volere, da un lato, degli innumerevoli e ben connessi fenomeni della sfera affettiva dall’altro. Questa nozione è preliminare alla comprensione della definizione fenomenologica di persona come soggetto d’atti. Naturalmente occorre, per capire questa definizione e la teoria che essa introduce, la teoria stratificata degli atti (De Monticelli, 2007), soffermarsi anche su quegli strumenti concettuali indispensabili che sono la differenza fra atti e stati, la differenza fra motivi e cause e la differenza fra azioni ed eventi. Si tratta di distinzioni ontologiche, e non di una riedizione delle vecchie distinzioni neo-kantiane o al più wittgensteiniane fra scienze della natura e scienze umane, o fra “spiegare” e “comprendere”. Impossibile dunque entrare qui nei dettagli della teoria: si può comunque dire sulla base di queste argomentate distinzioni, essere una persona equivale a emergere sui propri stati mediante i propri atti. Questo emergere distingue la persona umana in tutti gli aspetti principali in cui si differenzia da altri animali superiori: grado di libertà d’azione, capacità di assumere impegni, capacità di creare istituzioni e artefatti complessi, capacità di parlare una lingua atta non solo alla comunicazione ma al giudizio e alla finzione. Anche il “problema difficile” secondo Chalmers, il problema della coscienza, ne riceve una luce del tutto nuova, ci torneremo forse più avanti.
3. La ricerca filosofica può ancora avere una autonomia quando le domande fondamentali sull’uomo vengono poste da scienza quali biologia e neurologia? Se si, che tipo di autonomia e come il confronto con queste scienze ha modificato i metodi della ricerca filosofica?
Io credo che la fenomenologia nasca e rinasca come risposta a questo processo di naturalizzazione, ovvero di acquisizione di sempre più larghe parti dell’interrogazione filosofica tradizionale ai metodi scientifico-empirici. Un processo abbondantemente in corso già ai tempi di Husserl, e che oggi è cresciuto in modo esponenziale. In realtà ciò che può sconcertare i filosofi non sono certamente i risultati empirici, sui quali del resto bisognerebbe tenersi informati, ma le generalizzazioni filosofiche fatte a partire da essi, e in particolare le forme oggi sul mercato di materialismi riduttivi, o addirittura eliminativi: che cioè riducono ad altro o eliminano dall’ambito di ciò che esiste i principali fenomeni di cui abbiamo parlato sopra – dalla nostra coscienza alla nostra libertà, dai colori del mondo visibile ai valori delle cose e delle situazioni nel mondo della nostra vita. Queste riduzioni ed eliminazioni corrispondono precisamente a quello scetticismo nei confronti dei “fenomeni”, cioè della realtà apparente immediatamente esperibile, nei modi della percezione ma anche del sentire, dell’empatia, e in altri modi della cognizione diretta – quello scetticismo dunque, per combattere il quale la fenomenologia appunto nasce e cresce. Nasce e cresce dunque come una nuova risposta al mandato di Platone, “salvare i fenomeni”, e ci aiuta a sondare la profondità di questo mandato. Ma contro questo scetticismo relativo ai fenomeni nessun argomento è conclusivo. Quello che occorre non è un argomento, per quanto complesso, ma una vera e propria rivoluzione nel modo di concepire i rapporti fra apparenza e realtà: una rivoluzione non solo relativamente alla filosofia moderna, ma anche a quella antica (ancora una volta, non si tratta dunque di un ritorno alle radici). Questa vera e propria rivoluzione ontologica è la fenomenologia. Solo riconoscendo ai livelli “molecolari” di indagine la loro perfetta legittimità, ma anche pretendendo il riconoscimento di uno statuto di realtà a quei fenomeni che non sono più abbordabili a un livello molecolare, ma costituiscono oggetto di studio per la filosofia, si potrà ritrovare un rapporto proficuo fra le nuove scienze dell’uomo e la ricerca filosofica.
- Come descrivere una possibile interazione proficua tra queste discipline e la filosofia?
Ecco, diciamo anzitutto in cosa consiste questa “rivoluzione”. Partiamo dalle cose apparenti nel senso più semplice del termine, le cose visibili. Noi tendiamo a pensare che la vera realtà della cosa risieda nella sua parte non apparente, o nascosta, vale a dire che la cosa sia in effetti quello che è questa parte nascosta. Ad esempio la sua struttura fisica, le particelle di cui in ultima analisi è composta e le interazioni che le tengono insieme. Per la verità anche chi pensa che la realtà di una cosa – poniamo, di una persona – sia la sua anima, tende a pensare a questa realtà come a un’entità nascosta. In ogni caso l’entità vera – la “sostanza” – viene anche nel linguaggio comune contrapposta all’apparenza della cosa. E infine, per quanto senza uscita siano le oscurità in cui ci avvolgiamo, noi tendiamo a pensare questo rapporto fra sostanza e apparenza, fra realtà e fenomeno, in termini di “causazione” (la realtà “causa” l’apparenza, la “determina”, ovvero questa “risulta” a partire dalla realtà “sottostante”).
In ognuno di questi casi il vero essere della cosa, la sua realtà o sostanza, è pensato risiedere non nell’apparenza, ma in ciò che la “fonda”, la “determina”, la “causa”. Il linguaggio corrente suggerisce questo quasi inevitabilmente. In conclusione, noi tendiamo a pensare che ciò che “fonda” è ontologicamente più importante di ciò che è “fondato”; la “base” o “l’interno” è più importante di ciò che “emerge” alla superficie.
Una sorta di atavica grammatica mentale, insomma, ci induce tacitamente a pensare che l’entità e l’identità della cosa risieda più nella sua “base” nascosta che nelle sue proprietà “emergenti”: l’acqua è realmente nelle sue molecole piuttosto che nella sua liquidità e trasparenza, la realtà di una persona è nelle sue basi biologiche piuttosto che nella sua fioritura personale, e così via…
Questa grammatica atavica è ciò che chiamiamo ontologia. Ma in realtà non è che un’ontologia, un’ontologia che chiede oggi una profonda revisione. Questa profonda revisione è la fenomenologia.
5. In che modo viene operata questa revisione?
La fenomenologia ridefinisce completamente il rapporto fra realtà e apparenza. “Fenomeno” non è semplicemente l’apparenza della cosa. La parola denota quella che chiameremo la struttura emergente della cosa. A questo punto è facile definire il rapporto fra le discipline empiriche e la filosofia: questa si occupa soltanto delle proprietà emergenti delle cose, fra le quali tuttavia si trovano le proprietà essenziali, per mezzo delle quali si identifica il tipo di cosa di volta in volta in questione. Una persona sarà identificata cioè dalla sua capacità di impersonare liberamente le disposizioni caratteristiche della natura umana, e non dalla descrizione biologica di questa natura, benché naturalmente questa natura sia fondante rispetto alla sua personalità. Una statua, dalle sue qualità estetiche specifiche, e non dalle molecole del marmo di cui è fatta. Detto in breve, fare ricerca filosofica è ricondurre le realtà basilari e parziali che le scienze studiano ai loro interi di appartenenza – e occuparsi di questi ultimi.
6. Focalizziamo l’attenzione sulla neurofenomenologia. Leggendo i diversi saggi contenuti nel libro da lei curato (penso soprattutto all’articolo di Jean Petitot La svolta naturalista della fenomenologia e di Natalie Depraz Mettere al lavoro il metodo fenomenologico) , ma anche durante la lettura degli altri testi di Varela, ho avuto l’impressione che un interrogativo fosse assente o solamente accennato, riguardante la relazione tra analisi fenomenologica e analisi semantica dei vissuti. Lei crede che sia possibile esplicitare le operazioni semantiche che sono sottintese all’epochè e alla variazione eidetica e collegare in questo modo l’analisi eidetica dei vissuti ad una analisi grammaticale dei loro resoconti in prima persona?
Vediamo dapprima più in generale il senso e l’interesse dell’applicazione neurofenomenologica della fenomenologia. Scrive Vittorio Gallese nel suo contributo alla raccolta: “Personalmente, credo sia molto più interessante fenomenologizzare le neuroscienze cognitive che naturalizzare la fenomenologia. Utilizzare cioè vari aspetti della riflessione fenomenologica sul corpo vivo e sul ruolo da esso giocato nella costruzione della nostra realtà, e in particolare nella costruzione della realtà intersoggettiva”.
La nostra ambizione nell’edizione del reading è certamente più modesta e preliminare. Ci pareva utile insistere sulle risorse che il metodo fenomenologico offre per fare una cosa che nessun altra disciplina può fare, ma solo la filosofia, e di cui abbiamo oggi un bisogno estremo: gettare un po’ di luce sulle relazioni fra il mondo della vita quotidiana, che è anche il mondo in cui nascono tutte le nostre curiosità cognitive e le nostre risposte emotive, oltre che quello in cui si radicano i nostri interessi, le nostre scelte, le nostre azioni, la cultura e le sue istituzioni; e i mondi scoperti e indagati negli ultimi secoli, ma soprattutto nell’ultimo cinquantennio, dalle scienze naturali, in particolare la fisica, la biologia e le scienze della mente, e ancora più particolarmente le neuroscienze.
Entriamo ora un po’ più nello specifico della sua domanda: analisi fenomenologica e analisi semantica. Secondo alcuni autori, la nozione di noema, o di senso d’essere, è in fondo una generalizzazione della nozione fregeana di senso o pensiero (Smith, 1982 e Dummett,1995).
Questa lettura ha del vero, anche se non sottolinea abbastanza le differenze: in primo luogo, un pensiero è certamente per Husserl il senso di un enunciato, ma a differenza che in Frege è un momento di quell’intero-di-significato che è una proposizione (un pensiero può cioè essere riformulato in altri enunciati, ma non può sussistere senza il momento linguistico, né un enunciato è tale senza il senso di cui è investito). In secondo luogo, un noema è semmai un pensabile – ma resta un dato essenziale, non un significato linguistico per mezzo del quale posso descriverlo. Resta vero però che quello che Frege dice del contenuto di quegli atti che sono i giudizi, cioè dei pensieri o portatori di verità e falsità, Husserl lo generalizza ai contenuti di atti in generale: cognitivi (non solo giudizi o asserzioni, ma anche gli atti che procurano a questi una giustificazione appropriata, come percezioni, operazioni logiche quali dedurre o inferire, ecc.); affettivi, conativi.
8. Quindi è l’idea stessa di norma conoscitiva, in contrapposizione alla legge fisica e logica ad essere differente?
Questi “contenuti” non sono “mentali”, non stanno “nella mente” e neppure “nel cervello”, perché sono ciò senza di cui non avremmo norma di adeguatezza ai nostri atti, cioè non avremmo norma di ragione ai nostri comportamenti. In particolare, non avremmo norma di verità ai nostri giudizi, ad esempio non avremmo i principi logici e le regole di deduzione che pure le scienze empiriche, e in particolare le scienze del cervello e quelle della mente presuppongono validi. Ma non avremmo norma di validità neppure alle nostre percezioni, ai nostri ricordi, alle nostre emozioni, ai nostri desideri, alle nostre decisioni.
Un mondo senza oggettività – né in scienza, né in etica – è il mondo di quello che Husserl, con una parola usata in modo caratteristicamente lato e radicale, chiama “lo scetticismo”. E’ un mondo in cui gli atti delle persone non hanno condizioni di validità. Reciprocamente, gli atti delle persone hanno condizioni di validità se e solo se accedono a quelle fonti di normatività che sono le cose stesse nel loro tenore eidetico. In quanto contenuto di un atto, un noema è in certo modo un noumeno, un intelligibile: la parte “visibile alla coscienza” di una realtà essenziale, di un dato non empirico. Per un fenomenologo, abbiamo a che fare tutto il tempo coi noumeni, le “cose in sé”. Dalla più effimera delle percezioni alla più fatale delle decisioni della nostra vita. Seria e degna di essere vissuta è la vita in questa prospettiva.
Non è affatto, quindi, alla naturalizzazione della mente (o psiche) che il fenomenologo è portato ad opporsi, ma alla naturalizzazione della coscienza; lo è; mutatis mutandis, per le stesse ragioni per cui Frege si opponeva alla naturalizzazione delle leggi della logica. In effetti, non la psiche ma la coscienza è presenza, in ultima analisi, di pensabili, e quindi di verità possibili (a proposito di fatti, di essenze, di valori, di doveri). Questa eccedenza della coscienza sulla psiche è uno dei fenomeni emergenti che caratterizzano la novità ontologica delle persone.
9. Nel suo contributo al testo Neurofenomenologia, è proprio questa “ontologia della persona” che lei cerca di tratteggiare. Questo è un problema che da tempo accompagna la sua riflessione. Può delinearne i contorni e accennare ai metodi che ritiene efficaci per affrontarlo?
In quell’articolo mi soffermo su due problemi: come uscire dal quadro ontologico implicito nel problema mente-corpo e nelle sue varie soluzioni, che configurano come unica alternativa di fondo un monismo materialistico e un dualismo – seppure un’alternativa sfumata da una serie virtualmente infinita di combinazioni. E come costruire un’ontologia dell’essere personale all’interno della quale si possa risolvere il problema dell’identità personale. Discuto due versioni molto differenti di ontologia adatta a render ragione della natura delle persone umane, che hanno in comune la circostanza di sfuggire all’alternativa fra monismi materialistici e dualismi. Sono le teorie degli esseri materiali (viventi) di Peter Van Inwagen e quella delle persone di Lynne Baker.
Cerco in quell’articolo di mostrare che nessuna delle due teorie fornisce una soluzione soddisfacente al problema dell’identità personale. Argomento a questo scopo molto più utile del concetto di composizione (Van Inwagen) e di quello di costituzione (Baker) risulta quello husserliano di Fundierung, che non solo dà conto di una dipendenza dell’esser persona umana dalle basi biologiche specifiche, e dà conto anche dell’irriducibilità o novità ontologica della persona rispetto alle sue basi biologiche; ma inoltre dà conto di quel carattere veramente caratterizzante dal punto di vista ontologico che mi sembra essere, per le persone, la loro individualità essenziale.
Abbozzo quindi una caratterizzazione formale del concetto di individualità essenziale, che sostanzialmente rende conto dell’unicità, questa caratteristica delle persone umane: esse sono non replicabili, cioè impossibilitate a differire solo numero, nonostante in linea di principio replicabili siano i loro genomi individuali (come accade anche nel caso dei gemelli omozigoti). Questa caratteristica ontologica, l’unicità, è a mio parere una delle tre caratteristiche ontologiche di cui godono congiuntamente le persone e solo le persone (ne conosciamo solo di umane ma nulla vieta che se ne incontrino in futuro di marziane o basate su un’altra biologia): e cioè le caratteristiche che riassumo in altri lavori nelle categorie di profondità, o eccedenza d’essere rispetto all’aspetto e alla presenza personali, eccedenza che fa l’oggetto potenzialmente inesauribile della conoscenza personale di sé e degli altri; e di inizialità, neologismo questo in cui raccolgo due caratteristiche tradizionalmente riconosciuteci da una parte della tradizione filosofica: il libero arbitrio, e la capacità di dare esistenza a cose di tipo nuovo.