Intervista a Roberta De Monticelli (di prossima pubblicazione sul Bollettino di Filosofia dell’Unical)

settembre 21, 2008

Le innumerevoli risorse della ricerca fenomenologica

di Armando Canzonieri

  1. Sembra che la fenomenologie sia un movimento di pensiero che rinasce sempre dalle sue stesse ceneri; i problemi posti dalla filosofia cambiano ma questa disciplina continua ad avere qualcosa da dire. Quali sono, secondo lei, i concetti, nati all’interno del movimento fenomenologico, che oggi possono essere ancora utilizzati dalla riflessione filosofica per affrontare il problema della natura umana e dell’esperienza umana cosciente?

Più che dalle sue stesse ceneri, la fenomenologia rinasce dalle ceneri dei fraintendimenti e delle ignoranze, a volte involontarie e altre no, che hanno fatto la sua (s)fortuna nel secolo scorso. Rinasce dalle assurde riduzioni che si sono fatte del suo spirito, quanto mai aperto alla ricerca anche empirica e alle sue avventure, a quello di un attardato cartesianesimo tutto chiuso nella rocca del cogito; o di un “razionalismo” ignaro del ruolo di affetti, corpo, azione nella stessa formazione della ragione, o ignaro della ragionevolezza, cioè dell’esercizio della ragione in condizioni limitate. Rinasce dalla riduzione del metodo di ricerca che la fenomenologia è ad un sistema filosofico fra gli altri, accompagnata di solito dalla riduzione della fenomenologia a un fenomenismo o a una sorta di idealismo (che disconosce l’ambizione della fenomenologia a dire qualcosa sulla realtà e non solo sulla coscienza che ne abbiamo), anzi a parlare di ambiti di realtà diversi (regioni ontologiche) eppure connessi (dalle relazioni di fondazione che connettono fra loro le diverse “regioni ontologiche” come natura, persona eccetera).

E questo ci introduce alla domanda più specifica. Un’ontologia della regione persona, vale a dire una caratterizzazione essenziale di che cosa rende tale una persona umana è fin dal secondo libro delle Idee di Husserl uno dei punti principali del programma di ricerca fenomenologico. Ma essenziali apporti sono venuti da quei fenomenologi che si sono più intensamente concentrati sull’analisi delle strutture dell’affettività e del volere, vale a dire di quelle disposizioni i cui atti sono detti egologici”. Gli atti di tipo conativo (ad esempio le decisioni e le azioni volontarie) e quelli di tipo affettivo (ad esempio il provare dolore, speranza, paura) sono caratteristicamente esperienze in cui ciascuno, mentre le vive, sperimenta se stesso come tale, come soggetto degli atti stessi. Mentre le vive, e non per riflessione. Per riflessione posso riconoscermi soggetto di un atto puramente cognitivo, come risolvere un’equazione, ma non ho certo bisogno di esser presente a me stesso, mentre cerco di ricordarmi i passi da fare per risolverla. Invece non posso sentire male senza sentirmi male, non posso suonare il piano senza sentirmi agente e causa dei suoni che produco. Già questo concetto di atti egologici, che isola e descrive i tipi di esperienza in cui si “costituisce” la nozione di soggetto, fa fare un enorme passo avanti alla sterile problematica della soggettività come “lato interno”, inaccessibile e ineffabile dell’oggetto persona, come fascio di qualia o simili.

2. Quindi lei crede che è a partire da una fenomenologia dell’affettività e del volere che il problema della persona umana possa essere circoscritto e chiarito.

Non c’è nulla di ineffabile nella descrizione di quegli atti in cui effettivamente noi, a partire dalla prima infanzia, facciamo esperienza della nostra capacità di subire e della nostra efficacia causale, cioè dei contenuti esperienziali della nozione di soggetto. Ci sono, anzi ottime teorie fenomenologiche del volere, da un lato, degli innumerevoli e ben connessi fenomeni della sfera affettiva dall’altro. Questa nozione è preliminare alla comprensione della definizione fenomenologica di persona come soggetto d’atti. Naturalmente occorre, per capire questa definizione e la teoria che essa introduce, la teoria stratificata degli atti (De Monticelli, 2007), soffermarsi anche su quegli strumenti concettuali indispensabili che sono la differenza fra atti e stati, la differenza fra motivi e cause e la differenza fra azioni ed eventi. Si tratta di distinzioni ontologiche, e non di una riedizione delle vecchie distinzioni neo-kantiane o al più wittgensteiniane fra scienze della natura e scienze umane, o fra “spiegare” e “comprendere”. Impossibile dunque entrare qui nei dettagli della teoria: si può comunque dire sulla base di queste argomentate distinzioni, essere una persona equivale a emergere sui propri stati mediante i propri atti. Questo emergere distingue la persona umana in tutti gli aspetti principali in cui si differenzia da altri animali superiori: grado di libertà d’azione, capacità di assumere impegni, capacità di creare istituzioni e artefatti complessi, capacità di parlare una lingua atta non solo alla comunicazione ma al giudizio e alla finzione. Anche il “problema difficile” secondo Chalmers, il problema della coscienza, ne riceve una luce del tutto nuova, ci torneremo forse più avanti.

3. La ricerca filosofica può ancora avere una autonomia quando le domande fondamentali sull’uomo vengono poste da scienza quali biologia e neurologia? Se si, che tipo di autonomia e come il confronto con queste scienze ha modificato i metodi della ricerca filosofica?

Io credo che la fenomenologia nasca e rinasca come risposta a questo processo di naturalizzazione, ovvero di acquisizione di sempre più larghe parti dell’interrogazione filosofica tradizionale ai metodi scientifico-empirici. Un processo abbondantemente in corso già ai tempi di Husserl, e che oggi è cresciuto in modo esponenziale. In realtà ciò che può sconcertare i filosofi non sono certamente i risultati empirici, sui quali del resto bisognerebbe tenersi informati, ma le generalizzazioni filosofiche fatte a partire da essi, e in particolare le forme oggi sul mercato di materialismi riduttivi, o addirittura eliminativi: che cioè riducono ad altro o eliminano dall’ambito di ciò che esiste i principali fenomeni di cui abbiamo parlato sopra – dalla nostra coscienza alla nostra libertà, dai colori del mondo visibile ai valori delle cose e delle situazioni nel mondo della nostra vita. Queste riduzioni ed eliminazioni corrispondono precisamente a quello scetticismo nei confronti dei “fenomeni”, cioè della realtà apparente immediatamente esperibile, nei modi della percezione ma anche del sentire, dell’empatia, e in altri modi della cognizione diretta – quello scetticismo dunque, per combattere il quale la fenomenologia appunto nasce e cresce. Nasce e cresce dunque come una nuova risposta al mandato di Platone, “salvare i fenomeni”, e ci aiuta a sondare la profondità di questo mandato. Ma contro questo scetticismo relativo ai fenomeni nessun argomento è conclusivo. Quello che occorre non è un argomento, per quanto complesso, ma una vera e propria rivoluzione nel modo di concepire i rapporti fra apparenza e realtà: una rivoluzione non solo relativamente alla filosofia moderna, ma anche a quella antica (ancora una volta, non si tratta dunque di un ritorno alle radici). Questa vera e propria rivoluzione ontologica è la fenomenologia. Solo riconoscendo ai livelli “molecolari” di indagine la loro perfetta legittimità, ma anche pretendendo il riconoscimento di uno statuto di realtà a quei fenomeni che non sono più abbordabili a un livello molecolare, ma costituiscono oggetto di studio per la filosofia, si potrà ritrovare un rapporto proficuo fra le nuove scienze dell’uomo e la ricerca filosofica.

  1. Come descrivere una possibile interazione proficua tra queste discipline e la filosofia?

Ecco, diciamo anzitutto in cosa consiste questa “rivoluzione”. Partiamo dalle cose apparenti nel senso più semplice del termine, le cose visibili. Noi tendiamo a pensare che la vera realtà della cosa risieda nella sua parte non apparente, o nascosta, vale a dire che la cosa sia in effetti quello che è questa parte nascosta. Ad esempio la sua struttura fisica, le particelle di cui in ultima analisi è composta e le interazioni che le tengono insieme. Per la verità anche chi pensa che la realtà di una cosa – poniamo, di una persona – sia la sua anima, tende a pensare a questa realtà come a un’entità nascosta. In ogni caso l’entità vera – la “sostanza” – viene anche nel linguaggio comune contrapposta all’apparenza della cosa. E infine, per quanto senza uscita siano le oscurità in cui ci avvolgiamo, noi tendiamo a pensare questo rapporto fra sostanza e apparenza, fra realtà e fenomeno, in termini di “causazione” (la realtà “causa” l’apparenza, la “determina”, ovvero questa “risulta” a partire dalla realtà “sottostante”).

In ognuno di questi casi il vero essere della cosa, la sua realtà o sostanza, è pensato risiedere non nell’apparenza, ma in ciò che la “fonda”, la “determina”, la “causa”. Il linguaggio corrente suggerisce questo quasi inevitabilmente. In conclusione, noi tendiamo a pensare che ciò che “fonda” è ontologicamente più importante di ciò che è “fondato”; la “base” o “l’interno” è più importante di ciò che “emerge” alla superficie.

Una sorta di atavica grammatica mentale, insomma, ci induce tacitamente a pensare che l’entità e l’identità della cosa risieda più nella sua “base” nascosta che nelle sue proprietà “emergenti”: l’acqua è realmente nelle sue molecole piuttosto che nella sua liquidità e trasparenza, la realtà di una persona è nelle sue basi biologiche piuttosto che nella sua fioritura personale, e così via…

Questa grammatica atavica è ciò che chiamiamo ontologia. Ma in realtà non è che un’ontologia, un’ontologia che chiede oggi una profonda revisione. Questa profonda revisione è la fenomenologia.

5. In che modo viene operata questa revisione?

La fenomenologia ridefinisce completamente il rapporto fra realtà e apparenza. “Fenomeno” non è semplicemente l’apparenza della cosa. La parola denota quella che chiameremo la struttura emergente della cosa. A questo punto è facile definire il rapporto fra le discipline empiriche e la filosofia: questa si occupa soltanto delle proprietà emergenti delle cose, fra le quali tuttavia si trovano le proprietà essenziali, per mezzo delle quali si identifica il tipo di cosa di volta in volta in questione. Una persona sarà identificata cioè dalla sua capacità di impersonare liberamente le disposizioni caratteristiche della natura umana, e non dalla descrizione biologica di questa natura, benché naturalmente questa natura sia fondante rispetto alla sua personalità. Una statua, dalle sue qualità estetiche specifiche, e non dalle molecole del marmo di cui è fatta. Detto in breve, fare ricerca filosofica è ricondurre le realtà basilari e parziali che le scienze studiano ai loro interi di appartenenza – e occuparsi di questi ultimi.

6. Focalizziamo l’attenzione sulla neurofenomenologia. Leggendo i diversi saggi contenuti nel libro da lei curato (penso soprattutto all’articolo di Jean Petitot La svolta naturalista della fenomenologia e di Natalie Depraz Mettere al lavoro il metodo fenomenologico) , ma anche durante la lettura degli altri testi di Varela, ho avuto l’impressione che un interrogativo fosse assente o solamente accennato, riguardante la relazione tra analisi fenomenologica e analisi semantica dei vissuti. Lei crede che sia possibile esplicitare le operazioni semantiche che sono sottintese all’epochè e alla variazione eidetica e collegare in questo modo l’analisi eidetica dei vissuti ad una analisi grammaticale dei loro resoconti in prima persona?

Vediamo dapprima più in generale il senso e l’interesse dell’applicazione neurofenomenologica della fenomenologia. Scrive Vittorio Gallese nel suo contributo alla raccolta: “Personalmente, credo sia molto più interessante fenomenologizzare le neuroscienze cognitive che naturalizzare la fenomenologia. Utilizzare cioè vari aspetti della riflessione fenomenologica sul corpo vivo e sul ruolo da esso giocato nella costruzione della nostra realtà, e in particolare nella costruzione della realtà intersoggettiva”.

La nostra ambizione nell’edizione del reading è certamente più modesta e preliminare. Ci pareva utile insistere sulle risorse che il metodo fenomenologico offre per fare una cosa che nessun altra disciplina può fare, ma solo la filosofia, e di cui abbiamo oggi un bisogno estremo: gettare un po’ di luce sulle relazioni fra il mondo della vita quotidiana, che è anche il mondo in cui nascono tutte le nostre curiosità cognitive e le nostre risposte emotive, oltre che quello in cui si radicano i nostri interessi, le nostre scelte, le nostre azioni, la cultura e le sue istituzioni; e i mondi scoperti e indagati negli ultimi secoli, ma soprattutto nell’ultimo cinquantennio, dalle scienze naturali, in particolare la fisica, la biologia e le scienze della mente, e ancora più particolarmente le neuroscienze.

Entriamo ora un po’ più nello specifico della sua domanda: analisi fenomenologica e analisi semantica. Secondo alcuni autori, la nozione di noema, o di senso d’essere, è in fondo una generalizzazione della nozione fregeana di senso o pensiero (Smith, 1982 e Dummett,1995).

Questa lettura ha del vero, anche se non sottolinea abbastanza le differenze: in primo luogo, un pensiero è certamente per Husserl il senso di un enunciato, ma a differenza che in Frege è un momento di quell’intero-di-significato che è una proposizione (un pensiero può cioè essere riformulato in altri enunciati, ma non può sussistere senza il momento linguistico, né un enunciato è tale senza il senso di cui è investito). In secondo luogo, un noema è semmai un pensabile – ma resta un dato essenziale, non un significato linguistico per mezzo del quale posso descriverlo. Resta vero però che quello che Frege dice del contenuto di quegli atti che sono i giudizi, cioè dei pensieri o portatori di verità e falsità, Husserl lo generalizza ai contenuti di atti in generale: cognitivi (non solo giudizi o asserzioni, ma anche gli atti che procurano a questi una giustificazione appropriata, come percezioni, operazioni logiche quali dedurre o inferire, ecc.); affettivi, conativi.

8. Quindi è l’idea stessa di norma conoscitiva, in contrapposizione alla legge fisica e logica ad essere differente?

Questi “contenuti” non sono “mentali”, non stanno “nella mente” e neppure “nel cervello”, perché sono ciò senza di cui non avremmo norma di adeguatezza ai nostri atti, cioè non avremmo norma di ragione ai nostri comportamenti. In particolare, non avremmo norma di verità ai nostri giudizi, ad esempio non avremmo i principi logici e le regole di deduzione che pure le scienze empiriche, e in particolare le scienze del cervello e quelle della mente presuppongono validi. Ma non avremmo norma di validità neppure alle nostre percezioni, ai nostri ricordi, alle nostre emozioni, ai nostri desideri, alle nostre decisioni.

Un mondo senza oggettività – né in scienza, né in etica – è il mondo di quello che Husserl, con una parola usata in modo caratteristicamente lato e radicale, chiama “lo scetticismo”. E’ un mondo in cui gli atti delle persone non hanno condizioni di validità. Reciprocamente, gli atti delle persone hanno condizioni di validità se e solo se accedono a quelle fonti di normatività che sono le cose stesse nel loro tenore eidetico. In quanto contenuto di un atto, un noema è in certo modo un noumeno, un intelligibile: la parte “visibile alla coscienza” di una realtà essenziale, di un dato non empirico. Per un fenomenologo, abbiamo a che fare tutto il tempo coi noumeni, le “cose in sé”. Dalla più effimera delle percezioni alla più fatale delle decisioni della nostra vita. Seria e degna di essere vissuta è la vita in questa prospettiva.

Non è affatto, quindi, alla naturalizzazione della mente (o psiche) che il fenomenologo è portato ad opporsi, ma alla naturalizzazione della coscienza; lo è; mutatis mutandis, per le stesse ragioni per cui Frege si opponeva alla naturalizzazione delle leggi della logica. In effetti, non la psiche ma la coscienza è presenza, in ultima analisi, di pensabili, e quindi di verità possibili (a proposito di fatti, di essenze, di valori, di doveri). Questa eccedenza della coscienza sulla psiche è uno dei fenomeni emergenti che caratterizzano la novità ontologica delle persone.

9. Nel suo contributo al testo Neurofenomenologia, è proprio questa “ontologia della persona” che lei cerca di tratteggiare. Questo è un problema che da tempo accompagna la sua riflessione. Può delinearne i contorni e accennare ai metodi che ritiene efficaci per affrontarlo?

In quell’articolo mi soffermo su due problemi: come uscire dal quadro ontologico implicito nel problema mente-corpo e nelle sue varie soluzioni, che configurano come unica alternativa di fondo un monismo materialistico e un dualismo – seppure un’alternativa sfumata da una serie virtualmente infinita di combinazioni. E come costruire un’ontologia dell’essere personale all’interno della quale si possa risolvere il problema dell’identità personale. Discuto due versioni molto differenti di ontologia adatta a render ragione della natura delle persone umane, che hanno in comune la circostanza di sfuggire all’alternativa fra monismi materialistici e dualismi. Sono le teorie degli esseri materiali (viventi) di Peter Van Inwagen e quella delle persone di Lynne Baker.

Cerco in quell’articolo di mostrare che nessuna delle due teorie fornisce una soluzione soddisfacente al problema dell’identità personale. Argomento a questo scopo molto più utile del concetto di composizione (Van Inwagen) e di quello di costituzione (Baker) risulta quello husserliano di Fundierung, che non solo dà conto di una dipendenza dell’esser persona umana dalle basi biologiche specifiche, e dà conto anche dell’irriducibilità o novità ontologica della persona rispetto alle sue basi biologiche; ma inoltre dà conto di quel carattere veramente caratterizzante dal punto di vista ontologico che mi sembra essere, per le persone, la loro individualità essenziale.

Abbozzo quindi una caratterizzazione formale del concetto di individualità essenziale, che sostanzialmente rende conto dell’unicità, questa caratteristica delle persone umane: esse sono non replicabili, cioè impossibilitate a differire solo numero, nonostante in linea di principio replicabili siano i loro genomi individuali (come accade anche nel caso dei gemelli omozigoti). Questa caratteristica ontologica, l’unicità, è a mio parere una delle tre caratteristiche ontologiche di cui godono congiuntamente le persone e solo le persone (ne conosciamo solo di umane ma nulla vieta che se ne incontrino in futuro di marziane o basate su un’altra biologia): e cioè le caratteristiche che riassumo in altri lavori nelle categorie di profondità, o eccedenza d’essere rispetto all’aspetto e alla presenza personali, eccedenza che fa l’oggetto potenzialmente inesauribile della conoscenza personale di sé e degli altri; e di inizialità, neologismo questo in cui raccolgo due caratteristiche tradizionalmente riconosciuteci da una parte della tradizione filosofica: il libero arbitrio, e la capacità di dare esistenza a cose di tipo nuovo.

Edmund Husserl, Filosofia Prima. Teoria della riduzione fenomenologica, trad. it. di Andrea Staiti e a cura di Vincenzo Costa, Rubettino Editore, Soveria Mannelli 2007

settembre 21, 2008

Una parola con la quale indicare e raccogliere molti aspetti relativi alla costituzione interna, e alla ricezione nel tempo del pensiero di Edmund Husserl potrebbe essere il verbo ripensare.

Ripensare è infatti l’attività che Husserl ha svolto con costanza durante tutta la sua attività filosofica. Troviamo testimonianza di ciò anche solo sfogliando le pagine della Husserliana (la collana che raccoglie i manoscritti di ricerca e i testi inediti dell’ideatore della fenomenologia), in essa vi è un continuo ritornare indietro, ogni concetto chiarito viene nuovamente ripreso da un altro punto di vista, nuovamente confrontato e descritto. A volte la descrizione aggiunge tratti essenziali, altre risulta essere identica e nulla di rilevante viene aggiunto alle riflessioni precedenti, spesso sono gli stessi strumenti metodologici e le loro operazioni (come l’epoché e la variazione eidetica) ad essere ridiscussi e ridescritti. Eppure in queste ripetizioni e in questi passi indietro, noi lettori non ci troviamo di fronte a semplici e monotone copie e ripresentazioni di qualcosa di già detto, ogni volta qualcosa sembra accadere, qualcosa ci viene consegnato, forse una esortazione implicita a considerare l’attività del pensare e dell’argomentare come delle attività particolari, quasi innaturali. Del resto che la ridefinizione di uno spazio e di un argomentare filosofico siano stati uno dei problemi centrali della fenomenologia di Husserl è testimoniato proprio delle lezioni appena tradotte e raccolte in questo testo. Esse si aprono proprio con una descrizione dettagliata del percorso da compiere per assumere un atteggiamento filosofico nei confronti dell’esperienza e della conoscenza.

Ad esser costretti, sempre di nuovo, a muovere il nostro argomentare in avanti ed indietro siamo anche noi lettori dinanzi al lavoro di Edmund Husserl, nel tentativo di comprendere questo argomentare e più in generale, il significato e gli obiettivi della ricerca fenomenologica. Proprio a questa attività di ripensamento siamo chiamati ora dalla pubblicazione della seconda parte del corso universitario che Husserl tenne nel 1923-24 e in cui il filosofo cercò di delineare l’idea di una filosofia fenomenologico-trascendentale che ambisce appunto a presentarsi come filosofia prima (p. XII).

In queste lezioni tutti i concetti chiave della fenomenologia vengono presentati nella loro necessità teorica, ma soprattutto si assiste ad un forte lavoro sulla terminologia, mirante a chiarire per opposizioni e somiglianze la direzione verso la quale il metodo fenomenologico deve tendere se vuole descrivere i diversi campi intenzionali e la loro razionalità, ma soprattutto se deve fare emergere la struttura formale di quella esperienza soggettiva e di quel mondo per me a partire dal quale questi campi si costituiscono.

Non sono solo l’epoché, la riduzione, la soggettività, l’Einfühlung ad essere presi in esame, ma anche concetti apparentemente poco problematici come quello di vissuto, di oggetto intenzionale, di intuizione piena e vuota, di esperienza normale ed esperienza folle del mondo, vengono rimessi in discussione e spesso sostituiti da altri termini che espongono l’intera teoria fenomenologica a differenti sviluppi. Proprio perché abbiamo a che fare con un corso universitario, i diversi capitoli hanno la struttura di un laboratorio di esperimenti teorici e si ha l’impressione di non raccapezzarsi più al suo interno, di perdersi in analisi di dettaglio o addirittura di non coglierne il senso filosofico (p. XXVII). A questo bisogna aggiungere che le lezioni sono state a loro volta intergate con alte note, variazioni e critiche di Husserl, il quale in alcuni casi cambia o rigetta degli esempi, in altri sottolinea l’incompletezza o l’inconsistenza di intere argomentazioni (rimandiamo ad esempio agli interrogativi contenuti nella nota integrativa a p. 45) Ancora un indizio, questo, che ci fa pensare che intento della fenomenologia non sia quello di fornire una spiegazione ad un problema filosofico, quanto quello di mostrare le diverse forme del pensare, di costringere il pensiero individuale a mettersi in moto, mostrando che si inizia a fare filosofia nel momento in cui il sapere ingenuo e scientifico nel quale l’individuo vive diventa una sfida, nel momento in cui l’individuo risponde alla provocazione che giunge a manifestarsi per lui (p. XXIX).

Ed è proprio sulla scia del verbo ripensare e di questa strana necessità del pensare filosofico, il quale per fare passi avanti nella chiarificazione dei suoi problemi e dei suoi strumenti, è costretto a fare continuamente dei passi indietro, che vorremmo tratteggiare le linee guida in cui si articolano le lezioni contenute nel testo tradotto da Andrea Staiti (attualmente impegnato nella stesura della sua tesi di Dottorato presso l’Università di Friburgo, presso l’Archivio Husserl) e curato da Vincenzo Costa (autore di recente del saggio Il cerchio e l’ellisse, dedicato al problema della soggettività e della conoscenza evidente nella fenomenologia di Husserl e già impegnato, tra l’altro, nella traduzione delle Lezioni sulla sintesi passiva e nella revisione della traduzione italiana di Idee per fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica).

Le quattro sezioni, quindi, possono essere lette come degli inviti a ripensare ad alcuni concetti chiave della filosofia, a partire dall’idea stessa dell’attività del filosofare.

Proprio ad una descrizione della attività filosofica e del soggetto in quanto filosofo, sono dedicate le lezioni (28-38) che compongono le prime due sezioni del testo. Quale è il senso della pratica filosofica? Che cosa può pretendere dalla propria ricerca? Che tipo di relazione intrattiene l’argomentare filosofico con l’argomentare delle scienze e del senso comune? Secondo Husserl il cuore della pratica filosofica risiede nella particolare posizione occupata dalla soggettività nei confronti del sapere; la conoscenza filosofica nasce nel momento in cui per l’uomo sorge il problema di una suprema e definitiva coscienza di sé (p. 6), quando la comprensione di sé diventa centrale per la comprensione dell’esperienza che l’uomo fa del mondo. L’idea della filosofia, per poter emergere come idea guida teleologica, presuppone, nel soggetto conoscente, una specie di collasso di tutti i valori ingenui della conoscenza e della scienza, vale a dire un collasso conseguente al riconoscimento che tutta la scienza esistita fino a questo momento, per quanto sia degno della più alta stima, soffre di imperfezioni irrimediabili (p.26). Collasso che pone la filosofia in una posizione al limite in cui lo scetticismo si trasforma in follia. L’unica via d’uscita è percorrere questo limite alla ricerca di ciò che permette all’esperienza del mondo e alla conoscenza che ne deriva di essere proprio così e non altrimenti, di essere razionali nonostante tutto. Compito della filosofia sarebbe, quindi, quello di portare in superficie quelle operazioni trascendentali della soggettività che danno fondamento ad ogni conoscenza razionale e di definire il luogo in cui si costituisce il sapere (p. XIX). Proprio in questo senso va letto il richiamo che Husserl fa alla filosofia di Decartes. La fenomenologia cerca di esplicitare ciò che Decartes non ha detto sull’ego cogito. Husserl, in queste lezioni, cerca di aprire un possibile spazio di ricerca filosofica autonomo rispetto alla conoscenza scientifica, il quale si collochi anche al di la di ogni obiezione scettica e tale spazio è la soggettività trascendentale, la quale è l’unica risorsa disponibile di conoscenze immediate e apodittiche, di datiti di esperienza assolutamente indubitabili (p. 51). Spazio in cui è possibile operare la critica universale della mia esperienza […] che spetta a me effettuare, ed è l’unica che mi possa mai spettare (p. 73) Questo campo delle mie esperienze si rivela molto più ampio di quanto io stesso possa immaginare, ma ciò su cui Husserl si sofferma riguarda quella che potremmo chiamare la differenza tra il campo empirico delle mie esperienze e il campo trascendentale delle mie esperienze[1], per chiarire il senso di questo solipsismo nel senso buono del termine (p. 84), il quale accetta la rischiosa evidenza che il mondo c’è per me indubitabilmente grazie alla mia percezione concordante e […] l’esperire estraneo (che Husserl, sempre in queste pagine definisce una percezione mediante interpretazione originaria) è presente per me solo in quanto esperire che si manifesta negli indizi che si offrono attraverso dati mediati bisognosi di una interpretazione, è presente in me sulla base di ciò che esperisco direttamente (p.84). Oggetto della pratica filosofica diventa la struttura dell’esperienza diretta e dell’esperienza in prima persona nel tentativo di chiarire in che modo le nozioni fondamentali della conoscenza, tanto quotidiana che logica e scientifica, quali il concetto di causa, di spazio, di tempo e di cosa materiale, possano manifestarsi.[2] Non a caso la seconda sezione si chiude con una affermazione che annuncia questa nuova ricerca: se il mondo creato, il mondo oggettivo della mia esperienza, viene annientato, io stesso, l’io puro della mia esperienza, non vengo annientato e neppure questo esperire stesso […] una certa esperienza di me stesso è rimasta come residuo, cioè non è stata scossa dalla critica mondana, e se metto fuori circuito il mondo, io stesso non smetto mai di essere dato a me stesso come tema di esperienze e di altri tipi di conoscenza (p. 95).[3]

Ripensare al soggettività significa quindi spostarla dall’anonimato in cui la conoscenza scientifica l’aveva relegata al centro stesso della scena. Ma come pensare questo spostamento?

Questo spostamento viene chiamato riduzione e ad esso è dedicata la terza sezione (lezioni 39-46)

È possibile pensare a questo spostamento, nel momento in cui tutte le forme di conoscenza vengono ripensate a partire dalla soggettività, nel momento in cui ci si chiede: quale forma di soggettività e quale forma di esperienza devono darsi per far si che una certa conoscenza possa apparire e svilupparsi?

Queste lezioni iniziano, quindi, a muoversi nel campo dell’esperienza soggettiva descrivendone la forma e si scontrano immediatamente con il problema della riflessione e dell’esperienza do sé.

Percependo e osservando io non sono diretto (ad esempio) ad una casa. Ma del fatto che sono diretto alla casa […] io non so nulla e questo significa non sono diretto al mio esser diretto verso la casa. Questo accade soltanto nella forma della riflessione, cioè di una percezione di grado elevato. […] Naturalmente quando faccio entrare in gioco la riflessione, il percepire ingenuo dell’io dimentico di sé è già passato. Riflettendo in questo momento, colgo questo percepire ingenuo soltanto in una retrospezione che attinge in ciò che è ancora cosciente nella cosiddetta ritenzione[4], nel ricordo ritenzionale (p. 114-115). La possibilità della riflessione viene in queste pagine, fortemente legata alla possibilità della libertà, in quanto nella riflessione l’io scopre di non essere costretto a seguire ciò che i vissuti gli offrono, ma ha la possibilità sia di osservare disinteressatamente questi vissuti (atteggiamento teoretico) questi vissuti che di prendere posizione nei loro confronti (atteggiamento pratico). Tale disinteresse deve però essere conquistato, in quanto non è un atteggiamento naturale, immediato e la sua pratica viene chiamata da Husserl epoché (p. 137-144). Le ultime lezioni di questa sezione sono proprio dedicate alla descrizione dei diversi percorsi che l’io deve seguire per operare l’epoché a partire dai diversi atti intenzionali (percettivo, rimemorativo, immaginativo) che intende studiare, mentre le prime lezioni della quarta sezione (47-54), preparano il terreno alla riduzione fenomenologica universale come decisione di volontà universale. Attraverso questa operazione il fenomenologo giunge ad inibire tutti i suoi vissuti nel loro complesso (p. 186). Questa inibizione però porta come effetto la indissolubile correlazione tra l’insieme di tutte le esperienze reali e possibili e la connessione infinita dei vissuti della mia coscienza, spingendo infine Husserl a ripensare al concetto di monade. Ciò che caratterizza l’insieme dei vissuti in movimento che è la mia vita, è proprio il fatto che ogni presente di vita racchiude in sé, nella sua intenzionalità concreta, la vita intera e, unitariamente all’oggettualità percettivamente cosciente in questo presente, porta con sé, come orizzonte, l’universo di tutte quelle oggettualità che abbiamo mai avuto validità per me e, in un certo modo, addirittura di quelle che varranno per me in futuro (p.208). Proprio al termine del corso, quando la pratica fenomenologica solipsista ha mostrato tutta la sua forza indicando l’insieme di analisi descrittive che possono essere compiute all’interno del campo di esperienza in prima persona, Husserl riprende il concetto di intersoggettività (lezione 53) per mostrare come la riduzIone trascendentale per mezzo del proprio ego che viene esperito per primo, conduca all’esperienza dell’intersoggettività trascendentale e come la messa tra parentesi del mondo spaziale e, con esso, dei corpi fisici estranei e degli esseri umani estranei non metta affatto fuori gioco gli ego puri estranei con le loro cogitationes (p. 225).


[1] Per un approfondimento di questa tematica rimandiamo al testo di Vincenzo Costa Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2007

[2] In rifermando al problema della cosa materiale, è possibile consultare su internet le lezioni del corso universitario Problemi di filosofia della percezione, di Paolo Spinicci.

[3] Sono proprio queste forme argomentative ad esporre al fenomenologia alle critiche di nuovo idealismo. Per una discussione di questa problematica rimandiamo alla nota introduttiva di Vincenzo Costa al testo Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia trascendentale fenomenologica, Einaudi, Torino 2002.

[4] Il rapporto tra riflessione, autocoscienza e ritenzione viene analizzato ad esempio nel testo di Dan Zahavi Self-Awareness and Alterity. A phenomenological Investigation, Northwestern University Press, Avanston 1999 e nell’ articolo Phenomenological Approaches to Self-Consciousness, http:// plato.stanford.edu/entries/self-consciousness-phenomenological/

AA. VV. Neurofenomenologia. La scienza della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Bruno Mondadori Editore, Milano 2006 (di prossima pubblicazione sul Bollettino di Filosofia dell’Unical)

settembre 21, 2008

Il testo Neurofenomenologia è il primo volume di una nuova collana di ricerche filosofiche della casa editrice Mondadori e diretta da Roberta de Monticelli. Esso è una raccolta di saggi che presentano i risultati empirici e le trasformazioni teoriche di una disciplina ipotizzata e solo tratteggiata da Francisco J. Valera nell’articolo del 1996 Neurophenomenology: A Methodological Remedy to the Hard Problem[1]. Tale disciplina avrebbe potuto, secondo l’autore, affrontare quello che sembrava allora, e tuttora è il “problema difficile” della futura ricerca filosofica e scientifica: lo studio della coscienza e della relazione tra esperienza cosciente e struttura biologica degli esseri viventi. Per introdurre i contributi dei diversi autori è utile, quindi, prendere le mosse dalle indicazioni teoriche fornite da Varela. Del resto, lo stesso volume si apre con la versione integrale dell’articolo del 1996.

Negli anni 90 Francisco Varela cerca di portare alle estreme conseguenze l’insieme di presupposti metodologici e di risultati teorici e sperimentali ai quali era giunto in quella particolare e personale ricerca che aveva tenuto insieme la biologia e l’epistemologia (nel tentativo di fornire una descrizione appropriata dei sistemi viventi e di individuare i fondamenti biologici della conoscenza), l’epistemologia e la tradizione filosofica occidentale (nel tentativo di rileggere la relazione classica tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto alla luce dei concetti di autopoiesi e di accoppiamento strutturale elaborati insieme a Humberto Maturana) e, infine, questa stessa tradizione e l’insieme delle conoscenze buddhiste intono alla struttura della vita, della conoscenza e della esperienza cosciente.[2]

Nelle pagine iniziali l’autore traccia in negativo il centro intorno al quale la nascente fenomenologia neuro-psico-evolutiva o neurofenomenologia deve ruotare: non abbiamo alcuna idea di come potrebbe essere il mentale o il cognitivo al di fuori dell’esperienza che ne abbiamo (p. 67). Tale constatazione impone alla ricerca una prima virata, dalla scienza alla filosofia.

Non è possibile studiare i correlati neurali e biologici delle attività cognitive se prima non si è giunti ad una rigorosa descrizione della struttura di queste attività, ma tale descrizione deve chiarire prima di tutto che cosa accade all’esperienza di un singolo individuo quando queste attività sono operative. Il primo passo per studiare la coscienza è, quindi, quello di rispondere esplicitamente ad interrogativi del tipo: quali sono le caratteristiche dell’esperienza del ricordare, dell’immaginare, del pensare e del vedere? Trovare una risposta sensata a queste domande significa fornire il materiale semantico ed empirico alla ricerca scientifica. Varela, quindi, continua a chiedere all’avanguardia scientifica e filosofica: com’è possibile esplorare i meccanismi neurali rilevanti per la coscienza senza che queste controparti esperienziale possano essere sufficientemente discriminate, riconosciute ed esercitate? (p. 81)

All’interno della storia della filosofia c’è una disciplina che ha preso le mosse dalla natura irriducibile dell’esperienza cosciente e che ha cercato di elaborare un metodo rigoroso per portare in superficie la struttura dell’esperienza e rispondere agli interrogativi intorno alle attività coscienti: la fenomenologia di Edmund Husserl. Da essa, secondo il biologo cileno, bisogna ripartire.

La scoperta fondamentale dell’analisi fenomenologica risiederebbe nell’ aver compreso che l’esperienza, pur essendo un evento personale, non è un evento privato e soggettivo e quindi mutevole e inafferrabile, inconoscibile e incomunicabile ma, mostra ad una attenta analisi delle forme invarianti che ne delimitano di volta in volta i bordi e le condizioni di possibilità. Proprio a partire dalla descrizione di questi bordi, una ripresa e una verifica su basi biologiche e scientifiche dei dati fenomenologici può diventare fruttuosa. Se prendiamo ad esempio uno dei tratti caratteristici dell’esperienza cosciente come l’attenzione, e accostiamo la descrizione eidetica che di essa ne fa Husserl alle recenti ricerche sulla struttura dell’attenzione da parte della neuroanatomia, ci troviamo dinanzi ad un fenomeno tripartito che chiama in causa il presente e gli orizzonti protensionali e ritensionali che accompagnano la percezione e a dei risultati di ricerche eletroencefalografiche che individuano tre reti attenzionali attive durante l’esperienza cosciente: l’orientamento verso la stimolazione sensoriale, l’attivazione di schemi tratti dalla memoria e il mantenimento dello stato di allerta. (p.81)

Studiare l’esperienza cosciente, diventa quindi possibile se la fenomenologia e la neurologia lavorano di pari passo secondo uno schema di vincolo reciproco. Da un lato, attraverso il metodo fenomenologico dell’epoché e della variazione eidetica il singolo individuo riesce a fornire descrizioni chiarificanti dell’esperienza cosciente, dall’altro tanto più saranno sofisticati i metodi di visualizzazione celebrale, tanto più si avrà bisogno di una consolidata esperienza nell’esecuzione di discriminazioni e descrizioni fenomenologiche (p. 76 e p. 81).[3]

Il progetto di ricerca abbozzato da Varela, consegna una sfida teorica ed empirica alla futura ricerca scientifica e filosofica intorno alla coscienza: la sfida riguarda l’elaborazione di un campo di ricerca e quindi di un linguaggio e di un metodo comune alla pratica fenomenologica e neurologica; campo in cui le analisi in prima persona possono fornire del materiale per nuove ricerche scientifiche e a loro volta i dati empirici ottenuti dalla ricerca in terza persona possono essere riverificati e correlati ad aspetti dell’esperienza vissuta.

In un certo senso i diversi saggi hanno come obiettivo quello di presentare in Italia i primi risultati avuti da quei filosofi e scienziati che hanno accettato questa sfida e ne hanno verificato la potenza esplicativa. Crediamo che questo sia il primo punto di forza dell’intero testo. Esso fornisce al lettore italiano non solo la possibilità di leggere, a volte per la prima volta in italiano, dei saggi di J. L. Petit, allievo e collaboratore di Paul Ricoeur, insegnante e ricercatore presso il Laboratorio di Fisologia della Percezione e dell’Azione di Parigi e da anni interessato allo studio fenomenologico e neurologico del corpo proprio in movimento (pp. 163-194), di Natalie Depraz, curatrice dei volumi XIII e XIV della Husserliana dedicati al problema dell’intersoggettività (pp. 249-270) e Jean Petitot, da anni impegnato in un lavoro di ricerca sui fondamenti esperienziali dei concetti matematici e curatore insieme allo stesso Varela del volume del 1999 Naturalizing Phenomenology (pp. 95-124); ma anche di prendere coscienza delle ricerche che sono state avviate in Italia a partire dal progetto neurofenomenologico, come ad esempio la riflessione teorica sulla relazione tra neuroni specchio, empatia e intersoggettività, portata avanti da Vittorio Gallese, insegnante di neuroscienze presso L’università degli Studi di Parma (pp. 293-326), o il tentativo di Roberto Ferrari (ricercatore in entomologia e biologia presso l’Università degli Studi di Bologna) e Franco Bertossa (maestro di meditazione di indirizzo buddhista) di creare un ponte reale di integrazione e confronto tra i risultati ottenuti dalla ricerca scientifica e filosofica occidentale sulla coscienza e quelli ottenuti dalla ricerca e pratica meditativa in prima persona elaborati in Oriente (con particolare riferimento alla tradizione buddhista).[4]

Il volume è diviso in sei sezioni. La prima è dedicata ai rapporti tra concetti matematici e struttura dell’esperienza e ad essere chiamate in causa sono quindi da un lato le ricerche che Husserl ha dedicato ai fondamenti esperienziali delle scienze, dall’aritmetica alla geometria e quelle di Merleau-Ponty sulla nozione di Natura (Corsi al Collège de France 1952-52 e 1959-60), dall’altro le nuove ricerche in geometria morfologica e le teorie delle catastrofi, i sistemi dinamici non lineari, la termodinamica non lineare etc. Il testo di Jaen Petitot (La svolta naturalistica della fenomenologia) ha l’ambizione di mostrare in che senso, oggi, sia possibile convertire la conoscenza fenomenologica in una conoscenza scientifica propriamente detta e mostrare, usando modelli scientifici, le tappe che portano dai fenomeni soggettivi vissuti ai fenomeni naturali obiettivi, a partire dall’assunto che esiste una complementarità tra la descrizione eidetica dei vissuti immanenti e la modellizzazione matematica, geometrica e computazioanle dei fenomeni a cui questi vissuti danno accesso (p. 102). Giuseppe Longo (direttore di ricerca presso il Dipartimento d’Informatica dell’École Normale Supérieur di Parigi), s’interroga nel suo articolo sull’effettiva ragionevolezza ed efficacia della matematica. Punto di partenza della riflessione è, quindi, la constatazione che la nostra civiltà, usando dei modelli matematici e delle formule sia stranamente capace di prevedere e determinare il corso di molti avvenimenti. Tale possibilità risiederebbe nel fatto che la matematica lavora con quei perni e bordi fenomenici che l’esperienza stessa mostra agli individui attraverso delle regolarità (p. 149). Il movimento conoscitivo della matematica sarebbe un movimento intrinsecamente generatore di nuove conoscenze, di nuove esperienze e astrazioni matematiche in quanto tale movimento consiste nel trasformare le relazioni tra invariati in norme e, quindi, usare queste norme per condurre ulteriori costruzioni (p.149).

La seconda sezione del testo è dedicata allo studio del corpo vivo e della percezione spaziale. Che cosa è lo spazio per un corpo vivo? In che modo la corporeità è la forma della esperienza cosciente? In che modo la descrizione fenomenologica della percezione di un oggetto può essere estesa anche alla comprensione della percezione di un’opera pittorica e quindi alla comprensione della percezione del bello? Quale relazione e quale differenza c’è tra una intelligenza incarnata e una intelligenza artificiale? Questi alcuni degli interrogativi che vengono sollevati in questa parte del testo, attraverso i saggi di Jean-Luc Petit, Carmelo Calì, Federico Leoni e Alberto Giovanni Buiso.

I singoli saggi mostrano le linee giuda e le potenzialità del dialogo che l’analisi fenomenologica del corpo vivo e dello spazio può intrattenere, oggi, con la neurologia, l’estetica e la cibernetica.

Carmelo Calì propone un possibile sviluppo della teoria husserliana della percezione di oggetti in direzione di una interpretazione della percezione pittorica; ad essere prese in considerazioni sono le riflessioni che Husserl dedica al problema dei rapporti di somiglianza e differenza che legano la percezione di un oggetto alla percezione di una raffigurazione di un oggetto con particolare riferimento ai volumi XI (Analysen zur passiven Synthesis. Aus Vorlesungs und Forschungsmanuskripten 1918-1926), XIII (Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. Zur Phänomenologie der anschaulichen Vergegenwärtigung. Texte aus dem Nachlass 1898-1923) e, XVI (Ding und Raum. Vorlesungen 1907)

Il saggio di Federico Leoni si articola su due piani:

1) presenta i tratti fondamentali del pensiero del neurologo e psichiatra Erwin Walter Straus, il quale propone una rilettura della struttura del movimento del corpo che critica:

  • la separazione tra movimento e sensazione;
  • la separazione tra soggetto del movimento e mondo in cui il movimento avviene;

2) cerca di mostrare in che senso ad una certa idea del corpo (come res extensa ad esempio) corrispondano tutta una serie di saperi sul corpo che hanno degli effetti tanto nelle pratiche scientifiche che nella pratiche artistiche e letterarie.

Ne Il corpo come macchina semantica di Alberto Giovanni Buiso, la storia e la temporalizzazione che costituiscono il proprio corpo vengono prese come le differenze strutturali che dividono, oggi, essere vivente e l’intelligenza vivente dalle macchine artificiali e dall’intelligenza artificiale. Un’intelligenza artificiale dovrebbe essere munita di un corpo capace di apprendere nel tempo dall’ambiente per tentare di simulare l’intelligenza viva. Di certo sono il cuore della seconda sezione le riflessioni di Jean-Luc Petit sulla costituzione del corpo proprio e sulla possibilità di un incontro tra i dati neurofisiologica e i dati esperienziale sulla struttura del corpo vivo,. Da punto di vista fenomenologico il corpo proprio è una creazione operata dall’agente attraverso il suo uso. È derivato dal potere auto-formativo dell’azione e le sue trasformazioni nel corso dell’esperienza restano sotto il controllo dell’azione, così come la ristrutturazione delle mappe somato-sensoriali che ne assicurano l’inscrizione nel cervello (p. 164); in questa prospettiva anche il corpo proprio si da all’io a partire da una costituzione e non come un dato unitario, esso di fatto non è né dato nella forma di un oggetto e né nella forma di un semplice strumento del quale di volta in volta se ne usano solo delle parti, al contrario l’uso mostra all’io delle parti corporali di sé che possono formare una unità. Io non effettuo attualmente tutti i movimenti che mi permetterebbero le articolazioni delle braccia e delle gambe, l’elasticità dei loro tendini, la forza dei loro muscoli eccetera. Ne dispongo senza dubbio, ma solo come orizzonte dei miei movimenti e delle mie posture attuali (p. 175). Prima di avere un corpo abbiamo due mani (p. 169). Le mani sono i primi quasi oggetti che mostrano la loro funzione pratica nel toccare, nel toccasi e nell’afferrare, attraverso questa attività, altri oggetti vengono sottratti al semplice campo visivo e si legano al corpo partecipando alla sua cinestesi (p. 170) ma soprattutto le sensazioni tattili costituiscono uno spazio di auto-sensorialità che è lo spazio del corpo proprio. Questo spazio non è l’effetto di una rappresentazione e le contemporanee ricerche in campo delle neuroscienze sembrano dimostrarlo. Le mappe neurali degli arti, infatti, mostrano un’elevatissima plasticità e variano da individuo ad individuo; esse sono continuamente modificabili dall’esperienza e sono piuttosto il riflesso della storia individuale dell’uso dell’arto. La neurofisiologia spinge ai limiti paradossali la differenza tra l’immutabilità presunta del corpo fisico e la variabilità del corpo proprio percepito (attraverso l’uso che se ne fa) (p. 186).

Iniziamo a capire cosa può offrire una convergenza di analisi fenomenologica e neurologica dei vissuti, ma che cosa significa di fatto analizzare i vissuti in prima persona? Quali sono le pratiche concrete che corrispondono ai concetti di epochè, riduzione e variazione eidetica? E come riconoscere nell’esperienza concreta la struttura trascendentale di un vissuto?

Sono queste le domande affrontate nella terza sezione, soprattutto da Natalie Depraz, Roberto Ferrari e Franco Bertossa. Secondo Natalie Depraz è possibile mostrare che l’epochè, la riduzione e la variazione eidetica corrispondono a dei precisi esercizi di stabilizzazione che permettono all’individuo di studiare la propria esperienza in atto. L’epoché corrisponde ad un gesto di sospensione del corso abituale dei pensieri […] Non appena un’attività mentale, un pensiero fissato su un solo oggetto percepito mi distoglie dall’osservazione dell’atto percettivo pur per riassorbirmi nella percezione dell’oggetto, io la letto tra parentesi. Essa continua ad esistere davanti a me: io non l’ho sradicata né negata ma essa non è più lì per me (p.253). L’epoché deve essere, quindi, riattivata ad ogni istante; anche la variazione eidetica alla ricerca di invarianti è una attività pratica da perfezionare attraverso dell’esercizio dell’immaginazione a partire dalla percezione e dal movimento. Si tratta sempre di esercitarsi ad osservare e descrivere l’esperienza vissuta del soggetto che dice “io” e d’imparare ad osservare i pattern dinamici e a categorizzarli il più finemente possibile. Il fatto che si parli di descrizioni e di categorizzazioni, rende comprensibile il fatto che la pratica fenomenologica non è un’introspezione soggettiva, ma un lavoro intersoggetivo i cui dati possono e devono essere verificati e ripresentati da altri sia in prima sia in terza persona.

La portata teorica e pratica del secondo anello di congiunzione tra esperienza e neurologia, sul quale Francisco Varela si sofferma soprattutto nell’opera La via di mezzo della conoscenza, è presentata da Roberto Ferrari e Franco Bertossa nel saggio Meditazione di presenza mentale per le scienze cognitive.[5] Gli autori hanno come obiettivo primario quello di portare in superficie una serie di coincidenze teoriche tra la fenomenologia e le pratiche meditative di matrice buddhita e in un secondo momento avanzano l’ipotesi che proprio l’insieme di descrizioni in prima persona che la tradizione buddhista ha fornito sulle esperienze coscienti può fornire un primo bagaglio di nuovi esperimenti sul piano neurologico. La meditazione può diventare uno strumento efficace per disciplinare l’individuo nell’osservazione della propria esperienza, in particolare la pratica buddhista ha come oggetto d’analisi e descrizione il lato corporeo e sensibile dell’esperienza e ha come obiettivo, tra gli altri, proprio quello di rendere evidente al soggetto esperente cosa accade al corpo, quando le attività cognitive sono in atto. Per studiare l’esperienza vissuta in prima persona, occorre sviluppare una competenza specifica attraverso la pratica del corpo (p. 279). Tale competenza non può essere sviluppata casualmente ed in solitudine ma prevede la collaborazione con una guida, con un “tu” che diventa indispensabile nel momento in cui bisogna elaborare le descrizioni degli elementi esperinziali emersi dalla pratica meditativa.

Il saggio si chiude proprio sulla necessità di trovare un piano di condivisione delle esperienze in prima persona che ne permetta il confronto, l’integrazione e la verifica intersoggettiva, ma come fondare tale piano comune? Proprio a questi interrogativi sono rivolti gli ultimi due scritti della sezione, rispettivamente di Vittorio Gallese[6] e di Laura Boella, entrambi dedicati agli effetti teorici della scoperta dei neuroni specchio. Tale scoperta, da un lato aggiunge nuove conferme sperimentali alle intuizioni della fenomenologia riguardanti i legami tra percezione e movimento e dall’altro mette in evidenza il fatto che il processo empatico di riconoscimento e di identificazione in un altro soggetto e in un altro vissuto abbia dei correlati neurali.

Le ultime due sezioni del testo, infine, si soffermano sulla portata ontologica di questa interazione tra fenomenologia e neurologia, cioè sul modo in cui l’insieme degli oggetti e delle interazioni tra oggetti che costituiscono il mondo che ci circonda venga ridescritto a partire da essa. Prima di tutto l’interazione tra fenomenologia e neurologia porta ad una modificazione nella descrizione di quegli oggetti che noi stesso siamo, questi corpi-persone che interagiscono con altri corpi-persone: quali sono le caratteristiche di questi enti che noi stessi siamo? Esiste una gerarchia tra queste caratteristiche? E quali sono le entità che si generano a partire dalle interazioni tra queste entità? Quale è la struttura generale in cui si iscrivono tutte le attività cognitive? In altre parole, quale è la struttura generale della coscienza?

Sulla prima domanda, relativa allo statuto ontologico delle persone e dei loro corpi, si sofferma Roberta De Monticelli nel saggio Persona e individualità essenziale. In esso, l’autrice mette a confronto, proponendone una sintesi in chiave fenomenologica, due diverse descrizioni dell’oggetto persona, quella di Van Invagen e di Baker.

I particolari oggetti che le interazioni (sociali) tra questi corpi-persone che siamo riescono a istituire e le relazioni che queste e entità sociali hanno con le altre entità (materiali e ideali), sono il tema del testo Perché e meglio che la sintesi sia passiva di Maurizio Ferraris.

Agli ultimi due interrogativi vengono dedicati i saggi di Mauro Mandolato Coscienza della temporalità e temporalità della coscienza e di Domenico Jervolino Ricoeur: la fenomenologia della memoria e il confronto con le scienze cognitive, come si evince dai titoli, entrambi individuano nella temporalità la struttura essenziale della coscienza. L’indagine fenomenologica sulla struttura e sulla coscienza del tempo deve essere svolta come se si trattasse di determinazioni a priori, necessarie, logiche (p. 384) Tale idea sposta l’interrogativo dalla coscienza al tempo: com’è possibile studiare la natura del tempo attraverso la natura dei vissuti intenzionali? Che cosa ha da dire l’esperienza del tempo sull’esperienza dei propri vissuti e dei vissuti dell’altro io?

Ogni nostra esperienza, ogni nostra percezione, persino la più semplice sensazione, è l’effetto d’eco della sensazione d vivere in una continuità […]. La coscienza del tempo è, dunque, coscienza di un tempo e di un ritmo estremamente mutevoli. Se, sul piano neurobiologico, la coscienza si muove nel tempo in modo lineare; sul piano intenzionale essa è del tutto svincolata dal tempo oggettivo (p. 396), in quanto essa è sempre l’effetto di una continua sintesi di tracce che non conosce distinzione tra passato presente e futuro in se stessa ma soltanto nel momento in cui essa incontra la traccia in se stessa o nell’espressione di un altro corpo, di un flusso di coscienza estraneo.

Il testo nella sua interessa suggerisce quindi al lettore un ventaglio di possibili sviluppi e campi di ricerca propri delle contemporaneità, aperti e in continuo sviluppo.


[1] Articolo contenuto nel volume del 1996 del Journal of Consciousness Studies, 3 , pp. 330-350. Laddove verranno inserite delle citazioni, la pagina indicata farà riferimento alla versione contenuta nel testo Neurofenomenologia. La scienza della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Bruno Mondadori Editore, Milano 2006.

[2] L’articolazione sistematica di questo insieme di idee viene per la prima volta presentata nel volume scritto con E. Thompson ed E. Rosch, The Embodied Mind, MIT Press, Boston 1991, trad. it. La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1992. In lingua inglese è possibile approfondire questa stessa tematica consultando il testo di N. Depraz, F. Varela e P. Vermersch, On Becoming Aware. A Pragmatics of experiencing, John Benjamins Publishing Company, Amsterdam Philadelphia 2002.

[3] Un ulteriore chiarimento di questa ipotesi di lavoro ci viene fornita da Shaun Gallager e Dan Zahavi, autori del testo The Phenomenological Mind. An Introduction to philosophy of mind and cognitive science, Routledge, Oxon 2008, p. 10 (trad. it. di Armando Canzonieri) : « Confrontiamo queste due situazioni. Nella prima, noi siamo degli scienziati che hanno intenzione di spiegare il fenomeno della percezione, ma non abbiamo a nostra disposizione una descrizione fenomenologica dell’esperienza percettiva. Come faremo noi a sviluppare la nostra spiegazione? Dobbiamo partire da qualche punto. Probabilmente partiremo da una idea prestabilita della percezione, e cominceremo a fare degli esperimenti per testare le diverse predizioni che questa teoria permette di fare. […] Possiamo chiederci da dove questa teoria viene e trovare che essa ha origine in una serie e di osservazioni e di assunzioni sulla percezione. […] Nella seconda situazione, noi abbiamo a nostra disposizione una descrizione fenomenologica articolata dell’esperienza percettiva come intenzionale, spaziale, temporale e fenomenica. Noi crediamo che a partire da questa descrizione, abbiamo già anche una buona idea di che cosa deve essere spiegato […] e possiamo anche avere una buona indicazione sul modo in cui debbano essere elaborati gli esperimenti per verificare le caratteristiche della percezione».

[4] Un progetto così ampio e ambizioso non poteva naturalmente abbracciare tutte le ricerche sull’esperienza cosciente che prendono spunto o si confrontano con le linee teoriche della neurofenomenologia; restano infatti ai margini del testo, nelle sue note e bibliografie, tutta una serie di autori che all’interno della fenomenologia iniziano a confrontarsi con le contemporanee ricerche neuroscientifiche, come ad esempio Dan Zahavi (soprattutto nell’ultima opera scritta con Shaun Gallagher, Phe phenomenological mind, Routledge 2007) , Shaun Gallager, Dieter Lohmar e di ricercatori che a partire dalle scienze cognitive, si avvicinano alla fenomenologia per revisionare i propri assunti teorici, come ad esempio Evan Thompson (rimandiamo ad esempio all’articolo scritto in collaborazione con Antoine Lutz, Neurophenomenology. Integrating Subjective Experience and Brain Dynamics in the Neuroscienze of Consciousness in Journal of Consciousness Studies, 10 2003, pp. 31-52) . Questa non intende essere una critica alla incompletezza del testo ma più che altro l’espressione sincera della speranza che tale lavoro sia solo al suo primo passo.

[5] Per un approfondimento di questo tema rimandiamo al sito http://www.associazioneasia.it/. I due autori dell’articolo hanno presentato questo progetto di ricerca anche all’interno di un libro edito da AlboVersorio, Lo sguardo senza occhio. Esperimenti sulla mente cosciente tra scienza e meditazione, 2005.

[6] Per una prima introduzione ai problemi di natura filosofica che la scoperta dei neuroni specchio ha sollevato, rimandiamo al testo So quello che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio. RaffaelloCortina Editore, 2006. Per un primo confronto tra questa scoperta scientifica e i dati esperienziali sull’empatia (Einfühlung) raccolti dalla fenomenologia di Husserl, possono essere utili gli articolo di Dieter Lohmar, Über phantasmatische Selbstaffektion in der typisierenden Apperzeption und im inneren Zeitbewusstsein, in Leitmotiv 3/2003 e Spiegelneuronen und die Phänomenologie der Intersubjektivität, in Interdisziplinäre Phänomenologie, 1, 2004 pp. 241-54

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settembre 21, 2008

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