AA. VV. Neurofenomenologia. La scienza della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Bruno Mondadori Editore, Milano 2006 (di prossima pubblicazione sul Bollettino di Filosofia dell’Unical)

Il testo Neurofenomenologia è il primo volume di una nuova collana di ricerche filosofiche della casa editrice Mondadori e diretta da Roberta de Monticelli. Esso è una raccolta di saggi che presentano i risultati empirici e le trasformazioni teoriche di una disciplina ipotizzata e solo tratteggiata da Francisco J. Valera nell’articolo del 1996 Neurophenomenology: A Methodological Remedy to the Hard Problem[1]. Tale disciplina avrebbe potuto, secondo l’autore, affrontare quello che sembrava allora, e tuttora è il “problema difficile” della futura ricerca filosofica e scientifica: lo studio della coscienza e della relazione tra esperienza cosciente e struttura biologica degli esseri viventi. Per introdurre i contributi dei diversi autori è utile, quindi, prendere le mosse dalle indicazioni teoriche fornite da Varela. Del resto, lo stesso volume si apre con la versione integrale dell’articolo del 1996.

Negli anni 90 Francisco Varela cerca di portare alle estreme conseguenze l’insieme di presupposti metodologici e di risultati teorici e sperimentali ai quali era giunto in quella particolare e personale ricerca che aveva tenuto insieme la biologia e l’epistemologia (nel tentativo di fornire una descrizione appropriata dei sistemi viventi e di individuare i fondamenti biologici della conoscenza), l’epistemologia e la tradizione filosofica occidentale (nel tentativo di rileggere la relazione classica tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto alla luce dei concetti di autopoiesi e di accoppiamento strutturale elaborati insieme a Humberto Maturana) e, infine, questa stessa tradizione e l’insieme delle conoscenze buddhiste intono alla struttura della vita, della conoscenza e della esperienza cosciente.[2]

Nelle pagine iniziali l’autore traccia in negativo il centro intorno al quale la nascente fenomenologia neuro-psico-evolutiva o neurofenomenologia deve ruotare: non abbiamo alcuna idea di come potrebbe essere il mentale o il cognitivo al di fuori dell’esperienza che ne abbiamo (p. 67). Tale constatazione impone alla ricerca una prima virata, dalla scienza alla filosofia.

Non è possibile studiare i correlati neurali e biologici delle attività cognitive se prima non si è giunti ad una rigorosa descrizione della struttura di queste attività, ma tale descrizione deve chiarire prima di tutto che cosa accade all’esperienza di un singolo individuo quando queste attività sono operative. Il primo passo per studiare la coscienza è, quindi, quello di rispondere esplicitamente ad interrogativi del tipo: quali sono le caratteristiche dell’esperienza del ricordare, dell’immaginare, del pensare e del vedere? Trovare una risposta sensata a queste domande significa fornire il materiale semantico ed empirico alla ricerca scientifica. Varela, quindi, continua a chiedere all’avanguardia scientifica e filosofica: com’è possibile esplorare i meccanismi neurali rilevanti per la coscienza senza che queste controparti esperienziale possano essere sufficientemente discriminate, riconosciute ed esercitate? (p. 81)

All’interno della storia della filosofia c’è una disciplina che ha preso le mosse dalla natura irriducibile dell’esperienza cosciente e che ha cercato di elaborare un metodo rigoroso per portare in superficie la struttura dell’esperienza e rispondere agli interrogativi intorno alle attività coscienti: la fenomenologia di Edmund Husserl. Da essa, secondo il biologo cileno, bisogna ripartire.

La scoperta fondamentale dell’analisi fenomenologica risiederebbe nell’ aver compreso che l’esperienza, pur essendo un evento personale, non è un evento privato e soggettivo e quindi mutevole e inafferrabile, inconoscibile e incomunicabile ma, mostra ad una attenta analisi delle forme invarianti che ne delimitano di volta in volta i bordi e le condizioni di possibilità. Proprio a partire dalla descrizione di questi bordi, una ripresa e una verifica su basi biologiche e scientifiche dei dati fenomenologici può diventare fruttuosa. Se prendiamo ad esempio uno dei tratti caratteristici dell’esperienza cosciente come l’attenzione, e accostiamo la descrizione eidetica che di essa ne fa Husserl alle recenti ricerche sulla struttura dell’attenzione da parte della neuroanatomia, ci troviamo dinanzi ad un fenomeno tripartito che chiama in causa il presente e gli orizzonti protensionali e ritensionali che accompagnano la percezione e a dei risultati di ricerche eletroencefalografiche che individuano tre reti attenzionali attive durante l’esperienza cosciente: l’orientamento verso la stimolazione sensoriale, l’attivazione di schemi tratti dalla memoria e il mantenimento dello stato di allerta. (p.81)

Studiare l’esperienza cosciente, diventa quindi possibile se la fenomenologia e la neurologia lavorano di pari passo secondo uno schema di vincolo reciproco. Da un lato, attraverso il metodo fenomenologico dell’epoché e della variazione eidetica il singolo individuo riesce a fornire descrizioni chiarificanti dell’esperienza cosciente, dall’altro tanto più saranno sofisticati i metodi di visualizzazione celebrale, tanto più si avrà bisogno di una consolidata esperienza nell’esecuzione di discriminazioni e descrizioni fenomenologiche (p. 76 e p. 81).[3]

Il progetto di ricerca abbozzato da Varela, consegna una sfida teorica ed empirica alla futura ricerca scientifica e filosofica intorno alla coscienza: la sfida riguarda l’elaborazione di un campo di ricerca e quindi di un linguaggio e di un metodo comune alla pratica fenomenologica e neurologica; campo in cui le analisi in prima persona possono fornire del materiale per nuove ricerche scientifiche e a loro volta i dati empirici ottenuti dalla ricerca in terza persona possono essere riverificati e correlati ad aspetti dell’esperienza vissuta.

In un certo senso i diversi saggi hanno come obiettivo quello di presentare in Italia i primi risultati avuti da quei filosofi e scienziati che hanno accettato questa sfida e ne hanno verificato la potenza esplicativa. Crediamo che questo sia il primo punto di forza dell’intero testo. Esso fornisce al lettore italiano non solo la possibilità di leggere, a volte per la prima volta in italiano, dei saggi di J. L. Petit, allievo e collaboratore di Paul Ricoeur, insegnante e ricercatore presso il Laboratorio di Fisologia della Percezione e dell’Azione di Parigi e da anni interessato allo studio fenomenologico e neurologico del corpo proprio in movimento (pp. 163-194), di Natalie Depraz, curatrice dei volumi XIII e XIV della Husserliana dedicati al problema dell’intersoggettività (pp. 249-270) e Jean Petitot, da anni impegnato in un lavoro di ricerca sui fondamenti esperienziali dei concetti matematici e curatore insieme allo stesso Varela del volume del 1999 Naturalizing Phenomenology (pp. 95-124); ma anche di prendere coscienza delle ricerche che sono state avviate in Italia a partire dal progetto neurofenomenologico, come ad esempio la riflessione teorica sulla relazione tra neuroni specchio, empatia e intersoggettività, portata avanti da Vittorio Gallese, insegnante di neuroscienze presso L’università degli Studi di Parma (pp. 293-326), o il tentativo di Roberto Ferrari (ricercatore in entomologia e biologia presso l’Università degli Studi di Bologna) e Franco Bertossa (maestro di meditazione di indirizzo buddhista) di creare un ponte reale di integrazione e confronto tra i risultati ottenuti dalla ricerca scientifica e filosofica occidentale sulla coscienza e quelli ottenuti dalla ricerca e pratica meditativa in prima persona elaborati in Oriente (con particolare riferimento alla tradizione buddhista).[4]

Il volume è diviso in sei sezioni. La prima è dedicata ai rapporti tra concetti matematici e struttura dell’esperienza e ad essere chiamate in causa sono quindi da un lato le ricerche che Husserl ha dedicato ai fondamenti esperienziali delle scienze, dall’aritmetica alla geometria e quelle di Merleau-Ponty sulla nozione di Natura (Corsi al Collège de France 1952-52 e 1959-60), dall’altro le nuove ricerche in geometria morfologica e le teorie delle catastrofi, i sistemi dinamici non lineari, la termodinamica non lineare etc. Il testo di Jaen Petitot (La svolta naturalistica della fenomenologia) ha l’ambizione di mostrare in che senso, oggi, sia possibile convertire la conoscenza fenomenologica in una conoscenza scientifica propriamente detta e mostrare, usando modelli scientifici, le tappe che portano dai fenomeni soggettivi vissuti ai fenomeni naturali obiettivi, a partire dall’assunto che esiste una complementarità tra la descrizione eidetica dei vissuti immanenti e la modellizzazione matematica, geometrica e computazioanle dei fenomeni a cui questi vissuti danno accesso (p. 102). Giuseppe Longo (direttore di ricerca presso il Dipartimento d’Informatica dell’École Normale Supérieur di Parigi), s’interroga nel suo articolo sull’effettiva ragionevolezza ed efficacia della matematica. Punto di partenza della riflessione è, quindi, la constatazione che la nostra civiltà, usando dei modelli matematici e delle formule sia stranamente capace di prevedere e determinare il corso di molti avvenimenti. Tale possibilità risiederebbe nel fatto che la matematica lavora con quei perni e bordi fenomenici che l’esperienza stessa mostra agli individui attraverso delle regolarità (p. 149). Il movimento conoscitivo della matematica sarebbe un movimento intrinsecamente generatore di nuove conoscenze, di nuove esperienze e astrazioni matematiche in quanto tale movimento consiste nel trasformare le relazioni tra invariati in norme e, quindi, usare queste norme per condurre ulteriori costruzioni (p.149).

La seconda sezione del testo è dedicata allo studio del corpo vivo e della percezione spaziale. Che cosa è lo spazio per un corpo vivo? In che modo la corporeità è la forma della esperienza cosciente? In che modo la descrizione fenomenologica della percezione di un oggetto può essere estesa anche alla comprensione della percezione di un’opera pittorica e quindi alla comprensione della percezione del bello? Quale relazione e quale differenza c’è tra una intelligenza incarnata e una intelligenza artificiale? Questi alcuni degli interrogativi che vengono sollevati in questa parte del testo, attraverso i saggi di Jean-Luc Petit, Carmelo Calì, Federico Leoni e Alberto Giovanni Buiso.

I singoli saggi mostrano le linee giuda e le potenzialità del dialogo che l’analisi fenomenologica del corpo vivo e dello spazio può intrattenere, oggi, con la neurologia, l’estetica e la cibernetica.

Carmelo Calì propone un possibile sviluppo della teoria husserliana della percezione di oggetti in direzione di una interpretazione della percezione pittorica; ad essere prese in considerazioni sono le riflessioni che Husserl dedica al problema dei rapporti di somiglianza e differenza che legano la percezione di un oggetto alla percezione di una raffigurazione di un oggetto con particolare riferimento ai volumi XI (Analysen zur passiven Synthesis. Aus Vorlesungs und Forschungsmanuskripten 1918-1926), XIII (Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. Zur Phänomenologie der anschaulichen Vergegenwärtigung. Texte aus dem Nachlass 1898-1923) e, XVI (Ding und Raum. Vorlesungen 1907)

Il saggio di Federico Leoni si articola su due piani:

1) presenta i tratti fondamentali del pensiero del neurologo e psichiatra Erwin Walter Straus, il quale propone una rilettura della struttura del movimento del corpo che critica:

  • la separazione tra movimento e sensazione;
  • la separazione tra soggetto del movimento e mondo in cui il movimento avviene;

2) cerca di mostrare in che senso ad una certa idea del corpo (come res extensa ad esempio) corrispondano tutta una serie di saperi sul corpo che hanno degli effetti tanto nelle pratiche scientifiche che nella pratiche artistiche e letterarie.

Ne Il corpo come macchina semantica di Alberto Giovanni Buiso, la storia e la temporalizzazione che costituiscono il proprio corpo vengono prese come le differenze strutturali che dividono, oggi, essere vivente e l’intelligenza vivente dalle macchine artificiali e dall’intelligenza artificiale. Un’intelligenza artificiale dovrebbe essere munita di un corpo capace di apprendere nel tempo dall’ambiente per tentare di simulare l’intelligenza viva. Di certo sono il cuore della seconda sezione le riflessioni di Jean-Luc Petit sulla costituzione del corpo proprio e sulla possibilità di un incontro tra i dati neurofisiologica e i dati esperienziale sulla struttura del corpo vivo,. Da punto di vista fenomenologico il corpo proprio è una creazione operata dall’agente attraverso il suo uso. È derivato dal potere auto-formativo dell’azione e le sue trasformazioni nel corso dell’esperienza restano sotto il controllo dell’azione, così come la ristrutturazione delle mappe somato-sensoriali che ne assicurano l’inscrizione nel cervello (p. 164); in questa prospettiva anche il corpo proprio si da all’io a partire da una costituzione e non come un dato unitario, esso di fatto non è né dato nella forma di un oggetto e né nella forma di un semplice strumento del quale di volta in volta se ne usano solo delle parti, al contrario l’uso mostra all’io delle parti corporali di sé che possono formare una unità. Io non effettuo attualmente tutti i movimenti che mi permetterebbero le articolazioni delle braccia e delle gambe, l’elasticità dei loro tendini, la forza dei loro muscoli eccetera. Ne dispongo senza dubbio, ma solo come orizzonte dei miei movimenti e delle mie posture attuali (p. 175). Prima di avere un corpo abbiamo due mani (p. 169). Le mani sono i primi quasi oggetti che mostrano la loro funzione pratica nel toccare, nel toccasi e nell’afferrare, attraverso questa attività, altri oggetti vengono sottratti al semplice campo visivo e si legano al corpo partecipando alla sua cinestesi (p. 170) ma soprattutto le sensazioni tattili costituiscono uno spazio di auto-sensorialità che è lo spazio del corpo proprio. Questo spazio non è l’effetto di una rappresentazione e le contemporanee ricerche in campo delle neuroscienze sembrano dimostrarlo. Le mappe neurali degli arti, infatti, mostrano un’elevatissima plasticità e variano da individuo ad individuo; esse sono continuamente modificabili dall’esperienza e sono piuttosto il riflesso della storia individuale dell’uso dell’arto. La neurofisiologia spinge ai limiti paradossali la differenza tra l’immutabilità presunta del corpo fisico e la variabilità del corpo proprio percepito (attraverso l’uso che se ne fa) (p. 186).

Iniziamo a capire cosa può offrire una convergenza di analisi fenomenologica e neurologica dei vissuti, ma che cosa significa di fatto analizzare i vissuti in prima persona? Quali sono le pratiche concrete che corrispondono ai concetti di epochè, riduzione e variazione eidetica? E come riconoscere nell’esperienza concreta la struttura trascendentale di un vissuto?

Sono queste le domande affrontate nella terza sezione, soprattutto da Natalie Depraz, Roberto Ferrari e Franco Bertossa. Secondo Natalie Depraz è possibile mostrare che l’epochè, la riduzione e la variazione eidetica corrispondono a dei precisi esercizi di stabilizzazione che permettono all’individuo di studiare la propria esperienza in atto. L’epoché corrisponde ad un gesto di sospensione del corso abituale dei pensieri […] Non appena un’attività mentale, un pensiero fissato su un solo oggetto percepito mi distoglie dall’osservazione dell’atto percettivo pur per riassorbirmi nella percezione dell’oggetto, io la letto tra parentesi. Essa continua ad esistere davanti a me: io non l’ho sradicata né negata ma essa non è più lì per me (p.253). L’epoché deve essere, quindi, riattivata ad ogni istante; anche la variazione eidetica alla ricerca di invarianti è una attività pratica da perfezionare attraverso dell’esercizio dell’immaginazione a partire dalla percezione e dal movimento. Si tratta sempre di esercitarsi ad osservare e descrivere l’esperienza vissuta del soggetto che dice “io” e d’imparare ad osservare i pattern dinamici e a categorizzarli il più finemente possibile. Il fatto che si parli di descrizioni e di categorizzazioni, rende comprensibile il fatto che la pratica fenomenologica non è un’introspezione soggettiva, ma un lavoro intersoggetivo i cui dati possono e devono essere verificati e ripresentati da altri sia in prima sia in terza persona.

La portata teorica e pratica del secondo anello di congiunzione tra esperienza e neurologia, sul quale Francisco Varela si sofferma soprattutto nell’opera La via di mezzo della conoscenza, è presentata da Roberto Ferrari e Franco Bertossa nel saggio Meditazione di presenza mentale per le scienze cognitive.[5] Gli autori hanno come obiettivo primario quello di portare in superficie una serie di coincidenze teoriche tra la fenomenologia e le pratiche meditative di matrice buddhita e in un secondo momento avanzano l’ipotesi che proprio l’insieme di descrizioni in prima persona che la tradizione buddhista ha fornito sulle esperienze coscienti può fornire un primo bagaglio di nuovi esperimenti sul piano neurologico. La meditazione può diventare uno strumento efficace per disciplinare l’individuo nell’osservazione della propria esperienza, in particolare la pratica buddhista ha come oggetto d’analisi e descrizione il lato corporeo e sensibile dell’esperienza e ha come obiettivo, tra gli altri, proprio quello di rendere evidente al soggetto esperente cosa accade al corpo, quando le attività cognitive sono in atto. Per studiare l’esperienza vissuta in prima persona, occorre sviluppare una competenza specifica attraverso la pratica del corpo (p. 279). Tale competenza non può essere sviluppata casualmente ed in solitudine ma prevede la collaborazione con una guida, con un “tu” che diventa indispensabile nel momento in cui bisogna elaborare le descrizioni degli elementi esperinziali emersi dalla pratica meditativa.

Il saggio si chiude proprio sulla necessità di trovare un piano di condivisione delle esperienze in prima persona che ne permetta il confronto, l’integrazione e la verifica intersoggettiva, ma come fondare tale piano comune? Proprio a questi interrogativi sono rivolti gli ultimi due scritti della sezione, rispettivamente di Vittorio Gallese[6] e di Laura Boella, entrambi dedicati agli effetti teorici della scoperta dei neuroni specchio. Tale scoperta, da un lato aggiunge nuove conferme sperimentali alle intuizioni della fenomenologia riguardanti i legami tra percezione e movimento e dall’altro mette in evidenza il fatto che il processo empatico di riconoscimento e di identificazione in un altro soggetto e in un altro vissuto abbia dei correlati neurali.

Le ultime due sezioni del testo, infine, si soffermano sulla portata ontologica di questa interazione tra fenomenologia e neurologia, cioè sul modo in cui l’insieme degli oggetti e delle interazioni tra oggetti che costituiscono il mondo che ci circonda venga ridescritto a partire da essa. Prima di tutto l’interazione tra fenomenologia e neurologia porta ad una modificazione nella descrizione di quegli oggetti che noi stesso siamo, questi corpi-persone che interagiscono con altri corpi-persone: quali sono le caratteristiche di questi enti che noi stessi siamo? Esiste una gerarchia tra queste caratteristiche? E quali sono le entità che si generano a partire dalle interazioni tra queste entità? Quale è la struttura generale in cui si iscrivono tutte le attività cognitive? In altre parole, quale è la struttura generale della coscienza?

Sulla prima domanda, relativa allo statuto ontologico delle persone e dei loro corpi, si sofferma Roberta De Monticelli nel saggio Persona e individualità essenziale. In esso, l’autrice mette a confronto, proponendone una sintesi in chiave fenomenologica, due diverse descrizioni dell’oggetto persona, quella di Van Invagen e di Baker.

I particolari oggetti che le interazioni (sociali) tra questi corpi-persone che siamo riescono a istituire e le relazioni che queste e entità sociali hanno con le altre entità (materiali e ideali), sono il tema del testo Perché e meglio che la sintesi sia passiva di Maurizio Ferraris.

Agli ultimi due interrogativi vengono dedicati i saggi di Mauro Mandolato Coscienza della temporalità e temporalità della coscienza e di Domenico Jervolino Ricoeur: la fenomenologia della memoria e il confronto con le scienze cognitive, come si evince dai titoli, entrambi individuano nella temporalità la struttura essenziale della coscienza. L’indagine fenomenologica sulla struttura e sulla coscienza del tempo deve essere svolta come se si trattasse di determinazioni a priori, necessarie, logiche (p. 384) Tale idea sposta l’interrogativo dalla coscienza al tempo: com’è possibile studiare la natura del tempo attraverso la natura dei vissuti intenzionali? Che cosa ha da dire l’esperienza del tempo sull’esperienza dei propri vissuti e dei vissuti dell’altro io?

Ogni nostra esperienza, ogni nostra percezione, persino la più semplice sensazione, è l’effetto d’eco della sensazione d vivere in una continuità […]. La coscienza del tempo è, dunque, coscienza di un tempo e di un ritmo estremamente mutevoli. Se, sul piano neurobiologico, la coscienza si muove nel tempo in modo lineare; sul piano intenzionale essa è del tutto svincolata dal tempo oggettivo (p. 396), in quanto essa è sempre l’effetto di una continua sintesi di tracce che non conosce distinzione tra passato presente e futuro in se stessa ma soltanto nel momento in cui essa incontra la traccia in se stessa o nell’espressione di un altro corpo, di un flusso di coscienza estraneo.

Il testo nella sua interessa suggerisce quindi al lettore un ventaglio di possibili sviluppi e campi di ricerca propri delle contemporaneità, aperti e in continuo sviluppo.


[1] Articolo contenuto nel volume del 1996 del Journal of Consciousness Studies, 3 , pp. 330-350. Laddove verranno inserite delle citazioni, la pagina indicata farà riferimento alla versione contenuta nel testo Neurofenomenologia. La scienza della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Bruno Mondadori Editore, Milano 2006.

[2] L’articolazione sistematica di questo insieme di idee viene per la prima volta presentata nel volume scritto con E. Thompson ed E. Rosch, The Embodied Mind, MIT Press, Boston 1991, trad. it. La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1992. In lingua inglese è possibile approfondire questa stessa tematica consultando il testo di N. Depraz, F. Varela e P. Vermersch, On Becoming Aware. A Pragmatics of experiencing, John Benjamins Publishing Company, Amsterdam Philadelphia 2002.

[3] Un ulteriore chiarimento di questa ipotesi di lavoro ci viene fornita da Shaun Gallager e Dan Zahavi, autori del testo The Phenomenological Mind. An Introduction to philosophy of mind and cognitive science, Routledge, Oxon 2008, p. 10 (trad. it. di Armando Canzonieri) : « Confrontiamo queste due situazioni. Nella prima, noi siamo degli scienziati che hanno intenzione di spiegare il fenomeno della percezione, ma non abbiamo a nostra disposizione una descrizione fenomenologica dell’esperienza percettiva. Come faremo noi a sviluppare la nostra spiegazione? Dobbiamo partire da qualche punto. Probabilmente partiremo da una idea prestabilita della percezione, e cominceremo a fare degli esperimenti per testare le diverse predizioni che questa teoria permette di fare. […] Possiamo chiederci da dove questa teoria viene e trovare che essa ha origine in una serie e di osservazioni e di assunzioni sulla percezione. […] Nella seconda situazione, noi abbiamo a nostra disposizione una descrizione fenomenologica articolata dell’esperienza percettiva come intenzionale, spaziale, temporale e fenomenica. Noi crediamo che a partire da questa descrizione, abbiamo già anche una buona idea di che cosa deve essere spiegato […] e possiamo anche avere una buona indicazione sul modo in cui debbano essere elaborati gli esperimenti per verificare le caratteristiche della percezione».

[4] Un progetto così ampio e ambizioso non poteva naturalmente abbracciare tutte le ricerche sull’esperienza cosciente che prendono spunto o si confrontano con le linee teoriche della neurofenomenologia; restano infatti ai margini del testo, nelle sue note e bibliografie, tutta una serie di autori che all’interno della fenomenologia iniziano a confrontarsi con le contemporanee ricerche neuroscientifiche, come ad esempio Dan Zahavi (soprattutto nell’ultima opera scritta con Shaun Gallagher, Phe phenomenological mind, Routledge 2007) , Shaun Gallager, Dieter Lohmar e di ricercatori che a partire dalle scienze cognitive, si avvicinano alla fenomenologia per revisionare i propri assunti teorici, come ad esempio Evan Thompson (rimandiamo ad esempio all’articolo scritto in collaborazione con Antoine Lutz, Neurophenomenology. Integrating Subjective Experience and Brain Dynamics in the Neuroscienze of Consciousness in Journal of Consciousness Studies, 10 2003, pp. 31-52) . Questa non intende essere una critica alla incompletezza del testo ma più che altro l’espressione sincera della speranza che tale lavoro sia solo al suo primo passo.

[5] Per un approfondimento di questo tema rimandiamo al sito http://www.associazioneasia.it/. I due autori dell’articolo hanno presentato questo progetto di ricerca anche all’interno di un libro edito da AlboVersorio, Lo sguardo senza occhio. Esperimenti sulla mente cosciente tra scienza e meditazione, 2005.

[6] Per una prima introduzione ai problemi di natura filosofica che la scoperta dei neuroni specchio ha sollevato, rimandiamo al testo So quello che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio. RaffaelloCortina Editore, 2006. Per un primo confronto tra questa scoperta scientifica e i dati esperienziali sull’empatia (Einfühlung) raccolti dalla fenomenologia di Husserl, possono essere utili gli articolo di Dieter Lohmar, Über phantasmatische Selbstaffektion in der typisierenden Apperzeption und im inneren Zeitbewusstsein, in Leitmotiv 3/2003 e Spiegelneuronen und die Phänomenologie der Intersubjektivität, in Interdisziplinäre Phänomenologie, 1, 2004 pp. 241-54

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